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Asl Na 3 Sud Le persone handicappate
La Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, approvata nel dicembre 2006 ripercorre attraverso i suoi 50 articoli, la strada che consente di combattere le discriminazioni e le violazioni dei diritti umani nei confronti di tutte le persone con disabilità.
La Convenzione è lo strumento che gli Stati del mondo devono percorrere per garantire i diritti di uguaglianza e di inclusione sociale di tutti i cittadini con disabilità. Il 24 febbraio 2009 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione, che diventa legge dello Stato. Il 23 dicembre 2010 anche l'Unione europea ha ratificato la Convenzione.
Chi sono ?
Per rispondere a questa domanda è necessario, preliminarmente, richiamare una sequenza:
gli eventi morbosi o traumatici producono, in successione:
-il danno o la menomazione, ossia una perdita o un'anormalità a carico di una struttura o di una funzione anatomica, fisiologica o psicologica (esteriorizzazione);
-la disabilità, ovvero l'incapacità ad assolvere a compiti indispensabili per la sopravvivenza in condizioni degne o nella misura considerata normale per un essere umano (oggettivazione);
-l' handicap, cioè la condizione di svantaggio esistenziale conseguente ad una menomazione o ad una disabilità che in un certo soggetto limita o impedisce l'adempimento del ruolo normale in relazione all'età, sesso e fattori socio-culturali (socializzazione).
 
MALATTIA -> MENOMAZIONE -> DISABILITA' + SOCIETA' = HANDICAP
 
Questa definizione di handicap si deve all'Organizzazione Mondiale della Sanità ( OMS), che nel 1980 pubblicò la "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Disabilità e degli Svantaggi Esistenziali" (ICDH).
L'importanza dell'introduzione di questa definizione risiede nell'ammissione che l'handicap non è un attributo intrinseco della persona, ma piuttosto un fenomeno sociale e culturale, strettamente causato da fattori ambientali e sociali.
Un fatto di rilievo storico se si considera che la medicina , fino al 1980, aveva e in molti casi ancora ha la tendenza a scindere la malattia dalla persona che ne è affetta e dal contesto in cui questa vive. Ciò comporta la sottovalutazione delle conseguenze della patologia o della menomazione determinate dalle reazioni nei confronti della disabilità da parte dell'interessato e di coloro che lo circondano o dai quali dipende (non accettazione, ansia, eccesso di protezione, pregiudizi, esclusione, barriere....).
 
Per la legge italiana, che ha adottato i principi introdotti dall'OMS ,
"è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione".
(art. 3, comma 1, Legge 5 febbraio 1992, n. 104)
 
Con l'introduzione di questa definizione di handicap, dal 1992 nel nostro paese convivono -confusamente - due diverse modalità di accertamento relative alla disabilità: quella della invalidità (medico legale, basata sulle percentuali) e quella dell' handicap (medico sociale e descrittiva).
Poiché molte commissioni tendono a considerare l'accertamento dell'handicap alla stregua di un accertamento di invalidità senza percentualizzazione -ovvero, una valutazione secondaria rispetto alla invalidità- finiscono per non rilevare e descrivere i concreti e specifici bisogni delle singole persone disabili, solo alla luce dei quali è poi possibile ipotizzare le soluzioni e programmare ed attivare gli interventi personalizzati necessari.
La definizione di handicap, invece, rappresentando la socializzazione della menomazione/disabilità, evidenzia che il momento della diagnosi medica non è preponderante, ma rimane importante nella stessa misura in cui lo è quello della valutazione delle condizioni sociali, economiche, ambientali e culturali del soggetto. E' esperienza diffusa, infatti, che la stessa menomazione produce situazioni di svantaggio diseguali quando si manifesta in realtà sociali diverse (per reddito, istruzione, organizzazione dei servizi, pregiudizi culturali ecc.).
 
L'OMS recentemente ha pubblicato la nuova "Classificazione Internazionale delle Menomazioni, delle Attività personali (ex Disabilità) e della Partecipazione sociale (ex Handicap)" (ICDH-2), nella quale vengono ridefiniti due dei tre concetti portanti che caratterizzano un processo morboso:
- la sua esteriorizzazione: menomazione
- l'oggettivazione: non più disabilità ma attività personali
- le conseguenze sociali: non più svantaggio sociale o handicap ma diversa partecipazione sociale
In particolare:
- con attività personali si considerano le limitazioni di natura, durata e qualità che una persona subisce nelle proprie attività a causa di una menomazione strutturale o funzionale. Sulla base di questa definizione ogni persona è diversamente abile.
- Con partecipazione sociale si considerano le limitazioni di natura, durata e qualità che una persona subisce in tutte le aree o gli aspetti (sfere) della propria vita a causa dell'interazione fra le menomazioni, le attività ed i fattori contestuali.
 
Con questa nuova Classificazione, quindi, l'OMS ha definitivamente superato e messo da parte i termini handicap ed handicappato, che, come aveva rivelato un suo studio, in molti paesi mantenevano una connotazione negativa e discriminatoria.
L'handicap non va considerato più come la caratteristica distintiva di un gruppo isolato di persone (specificità dell'handicap), bensì una componente naturale dell'esperienza umana che coinvolge tutti (universalità dell'handicap).
Sembra perciò oggi più corretto ed opportuno utilizzare, in alternativa, la locuzione "persona in situazione di disabilità".
Il modello sociale ed universale dell'handicap, via via introdotto dall'OMS, offre un messaggio politico sempre più inequivocabile: la risposta appropriata della società alla disabilità non è necessariamente un'azione correttiva sull'individuo. Il significato e la gravità di una limitazione dell'attività dipendono ugualmente, e talora unicamente, dalla natura del contesto fisico e sociale in cui vive la persona, che non va più considerato fisso ed immutabile. Per questo, quindi, è fondamentale inserire nell'agenda politica gli interventi per modificare quest'ambiente, quando è questo a creare l'handicap, mirando gli interventi su di esso e non sull'individuo.
La pubblicazione infine nel 2001 da parte dell'OMS della "Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e disabilità" (ICF) sposta ulteriormente l'interesse dalla diagnosi a ciò che è rilevante per avere una idea del funzionamento di una persona. Se infatti una persona, per ragioni di salute, non riesce a lavorare, ha scarsa importanza che la causa sia di origine fisica, psichica o sensoriale. In ogni caso occorrerà intervenire sulle cause sociali, organizzative e riabilitative, per diminuire la disabilità ed evitare che altri anni di vita vadano perduti. Ciò con evidenti ricadute sulla pratica medica, le politiche sociali e la tutela dei diritti.
Quante sono ?
La legge n. 104 del 1992 e successiva modifica Legge n. 183 del 2010, dopo aver dato la definizione di handicap, ha previsto anche modalità e organi per il suo riconoscimento. Pertanto, solo a far data dall'applicazione della legge, si è potuto incominciare una ricognizione corretta, oltre che diffusa, del fenomeno.
Al momento mancano ancora dati ufficiali, esaurienti ed aggiornati sull'effettivo numero delle persone handicappate del nostro paese, tuttavia, elaborando alcuni dati forniti dall'ISTAT (Indagine sulla condizione di salute e il ricorso ai servizi sanitari del 2004-2005), è ipotizzabile che esse rappresentino una quota oscillante tra il 4,8 e il 5 % della popolazione residente.
Secondo valutazioni più recenti (cfr. http://www.disabilitaincifre.it/ ), i disabili in Italia sono circa 2 milioni e 800 mila. Pochi di loro riescono a realizzarsi nello studio e nel lavoro, e l'emancipazione, possibile solo grazie all'autonomia economica e sociale, resta di conseguenza una chimera. Il 20,9 per cento non ha alcun titolo di studio, contro il 5 per cento dei non disabili (le donne portatrici di handicap sono ancora più svantaggiate: 25,1 a fronte del 12,6 degli uomini). Meno del 18 per cento ha un'occupazione, contro il 54 per cento dei coetanei senza disabilità (nella fascia di età 15-44 anni gli uomini con disabilità lavorano nel 22,3 per cento dei casi, mentre le donne impiegate sono in generale molte meno il 13,9).